img9a303

Per info e prenotazioni

tavoladisegno4

Tenuta Cillone - Resort

Contrada Cillone - km 5,4, SS115

97100 Ragusa

.tel +39 09321836078

.email info@tenutacillone.it

.p.iva 01491730881

© 2019 Terra Iblea tutti i diritti riservati

​La storia della

Tenuta Cillone

Benvenuti alla Tenuta Cillone,

un'oasi di pace e tranquillità

200215tenutadrone3

Tenuta Cillone prende il nome dalla contrada in cui sorge, C.da Cillone.Il nome della contrada è “cidduni”, versione siciliana del greco Cydonia, mela cotogna, italianizzato in Ceddone, come risulta sul foglio con Modica della Carta dell’Istituto Geografico Militare.

 

Nei documenti dalla fine del ‘500 ai primi dell’’800 è denominata Cilluni o Gilluni. Per ciò dall’’800 è nota come Cillone. Si estende per circa 90 salme di pascolo, in una zona montana sulla riva sinistra del fiume Irminio.

A differenza della limitrofa Lusìa, contrada notissima per la grande sorgente che irriga orti e giardini, Cillone è poco nota a causa della sua marginalità. 

 

Vi si accede infatti da un bivio a sinistra sulla Statale 115 Ragusa-Modica, qualche chilometro dopo il cosiddetto Ponte di Modica, a circa otto chilometri per Modica. Ma se non fosse per un portale, l’accesso è così poco evidente che potrebbe sfuggire. Esso si apre a stento sul ripido pendio che sembra precipitare sull’Irminio, dalla soprastante Balata di Modica e su cui è stata tagliata la roccia per dar spazio alla strada. Chi potrebbe immaginare che su quello strapiombo possano esserci un caseggiato, una villa al centro di un ricco podere? E invece imboccato il bivio, si sale fra ripidi tornanti e cespugli, finchè non si approda in un vasto uliveto impiantato su un pianoro. La stradella lo attraversa senza muri e diritta conduce al caseggiato che si apre improvvisa alla vista del visitatore con il semplice prospetto a capanna della casa padronale. Un sobrio e rigoroso gusto presiede alla sua composizione.

 

Al centro la porta d’ingresso voltata ad arco, ai lati due porte rettamente architravate. Due rampe di scale conducono all’ingresso: la prima a semicerchio conduce ad una piazzola in cui un cuscino di pietra induce a una sosta nel breve terrazzino su cui affaccia la casa, la seconda conduce diritta all’ingresso. Una lapide a sinistra della facciata ci dice della laboriosa cura che la famiglia Ottaviano ha dedicato al podere, di padre in figlio a partire da Ignazio (1812-1881), magistrato di profonda cultura giuridica e di sentimenti unitari, delusi dall’avvento del Regno sabaudo per “il governo in mano agli affaristi”, per cui chiude il riposo nel 1864, per dedicarsi alla cura delle sue campagne.

 

 

appunti32

Ma sembra che la sua più consueta dimora in villa non fosse a Cillone bensì a Magazzinazzi, lungo la strada per Marina di Ragusa non tanto perché la dimora fosse più comoda e confortevole, quanto piuttosto per le assillanti cure che la “industriosa” tenuta dell’altopiano comportava per la presenza del bestiame bovino.

Le case Ottaviano di Magazzinazzi hanno tutte le caratteristiche della Masseria ragusana: muri di cinta, stalle per bovini, fienile, mannira e “casa ra mannira” per la lavorazione del caciocavallo, chiuse recintate dai muri a secco per l’alternanza con le colture del riposo pascolativo.

 

Le case di Cillone ubbidiscono invece alle esigenze di una agricoltura arboricola diffusasi nelle parti più pianeggianti del nostro territorio nella seconda metà dell’’800 soprattutto nella zona che da Chiaramonte va verso Comiso e Vittoria. L’impianto arboreo di uliveti e carrubeti e ancor più del vigneto e del giardino di agrumi rappresenta l’altra faccia, più moderna e innovativa della trasformazione capitalistica delle campagne del nostro territorio facilitata dalla diffusione delle nuove strade e dall’introduzione della ferrovia.

La condizione di questa parte della contrada Cillone appare profondamente legata alla presenza di entrambe le infrastrutture.

 

L’apertura della strada Ragusa-Modica negli anni ’40 dell’’800 ha consentito il processo di trasformazione di questi terreni marginali: “gerbi”,”cespugliosi”, “imboscati”, o impantanati. Là dove era il pantano si impianta il giardino, irrigemantando il corso dell’Irminio, là dove il colle offre aprichi ma scoscesi pendii, si terrazzava per impiantarvi la vite, si livella il pianoro per l’impianto di un mandorleto, più tardi trasformato in uliveto sul declivo più alto, a riparo dai venti nocivi del carrubeto. La carta dell’Istituto Geografico Militare ci dà il quadro riassuntivo della trasformazione con l’indicazione delle colture, con prevalente mandorleto, che hanno bonificato una parte di un latifondo a pascolo e cereali. Sotto l’occhio attento ed interessato del proprietario o “padrone” la manodopera che pensiamo lavorasse in conduzione diretta, data l’assenza di dimore rurali, si affaccendava ora alla raccolta delle mandorle, delle carrube, ora delle olive, ora dell’uva.

 

img9a303

Il pernottamento dei braccianti doveva avvenire nelle parti eccedenti i vasti magazzini.

Per la trasformazione dei prodotti agricoli non necessitavano le recinzioni, i muri a secco, indispensabili per l’impianto di una masseria nell’altopiano; non servono “mandre” e “scifi” (abbeveratoi), inutile l’alto muro di cinta attorno al caseggiato, esso circonda invece il retro della villa a proteggerla da occhi indiscreti e dai venti, piuttosto che contro abigeati. E in un primo luogo accedendo al caseggiato, si erge a destra della casina il grande magazzino delle carrube. Esso sfrutta il declino con l’apertura per l’immagazzinamento sulla parte alta della parete appoggiata al colle. Lo scarico delle carrube avviene così agevolmente dall’alto. Lo stesso accorgimento è adottato nell’edificio del lato opposto a sinistra della “villa”, per la costruzione del “palmento”. Anche qui due aperture provviste di mensole alla debita altezza, sul lato corto dell’edificio appoggiato al colle, permettevano lo scarico dell’uva sul “pigiatoio” oggi scomparso. Dopo la pigiatura, il mosto defluiva nelle fosse per caduta naturale, grazie al dislivello.

 

Le trasformazioni subìte dall’edificio non ci permettono di sapere se fosse presente anche un torchio (è documentato altrove fra il torchio e la cantina uno spazio per il pernottamento dei braccianti), mentre è probabile che la parte dell’edificio adibita a Cantina sia stata trasformata nel corso del ‘900 a stalla. Si tratta, in ogni caso della stabulazione di vitelli destinati all’ingrasso e non di una stalla a servizio di una azienda per la produzione del caciocavallo; Non v’è traccia, infatti, dei locali destinati alla produzione casearia.

Oppure era una stalla per equini, che dovevano essere presenti come animali da soma e da lavoro.

Dei cippi sul lato sinistro della casa, potevano servire per facilitare la monta dei cavalli e uno spazio recintato da un muro di sostegno a semicerchio sembra poter essere adibito all’addestramento dei cavalli.

 

Quando fu dismesso il vigneto? Pare che fosse non reimpiantato dopo la distruzione delle viti a fine ‘800 a causa della filossera, forse anche per la forte concorrenza dei nuovi impianti della piana di Comiso e Vittoria. Il giardino fu abbandonato abbastanza recentemente, nel corso del secolo scorso.

Resta il caseggiato a testimoniare il laborioso impegno di trasformazione di terre prima brulle e derelitte, in un significativo esempio di tenuta coltivata all’altezza delle tecniche agronome più avanzate dell’’800 siciliano. Si tratta di un’azienda certamente condotta direttamente dal proprietario, il che non è frequente nel ragusano, cosa che accresce l’interesse per questo singolare insediamento rurale.

Si ha notizia che per la conduzione del fondo al tempo del notaio Ignazio, fossero impiegati fino a 70 braccianti “jurnatari”.